Miki Porru, autore e cantautore, nasce a Bologna il 7 ottobre 1964. Appassionato di musica fin da bambino, detto/fatto, nel 1983 la sua lunga chioma viene avvicinata davanti ad un hotel a Roma da Roby Facchinetti e Red Canzian dei Pooh, i quali si chiedono il perché un personaggio così eccentrico e talentuoso come lui non stia calcando il palcoscenico. E come dargli torto. Anche se, nel 1988, in occasione della gran finale di Sanremo dove si classificò al quarto posto con “Ogni tanto si sogna” preferì, invece che presenziare alla premiazione, rincorrere il suo idolo Paul McCartney tra i fiori della città.
DIAMANTI, il suo nuovo disco, contiene dieci pietre preziose, appunto. Canta l’amore, quello vero: gioie e dolori.
– Sei un autore a 360 gradi. Quando hai iniziato, cos’ha voluto dire esserlo per gli altri, prima che per te stesso? Quanto ti è servito durante la tua carriera musicale?
Ho cominciato a scrivere canzoni a dodici anni. Non so, sin dalle prime strimpellate di chitarra ho sempre sentito la necessità di comporre qualcosa di mio. Avevo amici più grandi che ascoltavano De Gregori, De Andrè, Dalla, Guccini. A loro mi univo in quel rituale di fine anni settanta chiamato “compagnia” nel quale chi sapeva suonare la chitarra lo faceva per tutti, cantando le canzoni dei cantautori. Io poi tornavo a casa e dopo cena mi mettevo in cameretta a comporre brani miei. Ho ancora le cassettine con le prime composizioni. Sono buffe perché la voce è ancora quella di un bambino, mentre le canzoni tentano di dire qualcosa di adulto, serio, impegnato. Evidentemente a Bologna nel 1977 anche i dodicenni sentivano il vento delle rivolte studentesche che misero sottosopra la città! Quando ho iniziato ad avere le prime opportunità discografiche, e qui si salta al 1986, avevo già in serbo la voglia di fare anche l’autore e presentai a Red Canzian, che avevo conosciuto casulamente proprio a Bologna, una serie di canzoni. Gli piacquero i miei testi e mi mise alla prova, proponendomi di scriverne uno su un suo brano che sarebbe diventato la sigla di una trasmissione Rai condotta da Gianni Minà in occasione dei mondiali di calcio di quell’anno. Gli presentai così “Sogno Messicano”, così il brano finì nel suo disco e divenne erffettivamente la sigla che dicevo. Fu subito un bel battesimo, non c’è che dire. Nel corso degli anni ho scritto per diversi artisti, e nonostante sia più complicato scrivere per qualcuno che non sei tu, mi piace moltissimo mettermi lì a cercare un sodalizio artistico assoluto con chi interpreterà un mio brano. E’ un lavoro diverso, rispetto a quando scrivo per me stesso, perché le mie sensibilità devono incontrare in modo perfettamente combaciante le sensibilità interpretative di chi canta. Quando il risultato è riuscito (non è detto che accada sempre) la soddisfazione è tanta. Scrivere per altri mi ha aiutato molto a vedere da diverse prospettive il mio lavoro, e quindi a migliorarmi.
– Cos’è per te l’amore? Nel tuo ultimo disco è il tema che fa da padrone.
Ognuno di noi è un po’ il frutto del proprio vissuto sentimentale, ognuno di noi forma la sua esperienza relazionale su quella che Flaubert chiama l’educazione sentimentale ed è per questo che l’amore, volenti o nolenti, è sempre al centro dell’universo delle persone. Con le sue infinite variabili che portano poi sempre ad uno stesso punto: il bisogno di amare ma, soprattutto, di sentirsi amati. Può essere che l’amore sia semplicemente, come diceva un brano del mio album precedente, “una trasmutazione alchemica che non prevede una scambio equivalente”, ma comunque la si metta non è pensabile immaginarsi al di fuori di esso.
– Sai usare al meglio le parole, di certo non ti mancano. Cosa ti lascia senza?
In senso posizivo mi lasciano senza parole le opere d’arte la cui bellezza va oltre ogni possibile definizione, collacandosi in quell’inspiegabile che appartiene all’aspetto prodigioso della vita. In senso negativo, mi lascia senza parole la lamentatio continua, il brusio di quelli a cui non sta mai bene niente.
– Qual’è la frase più bella che hai scritto e perché?
Non so se è la frase più bella, ma certamente è una frase in grado di fare bene il suo lavoro all’interno di “Più non è”, una canzone del nuovo album “Diamanti” che racconta il disamore. Il testo a un certo punto dice: “Avevi gli occhi di pece e di fiamme/ e tutt’intorno era un fuoco di sguardi/ tutte le notti ero in piedi nel vento/ fra le tue gambe e i tuoi slanci più caldi/ c’erano luci che adesso ho perduto/ e un batticuore di cui non ricordo/ le tue attenzioni finite nel vuoto/ ti voglio bene ma ormai è troppo poco”.
– Cosa porti durante un live, oltre alla musica?
Certamente la voglia di emozionare il pubblico. Mi piace finire un concerto e sentirmi spremuto come un limone, sentire di non essermi risparmiato per niente. Dal vivo cerco attraverso il mio modo di interpretare di portare le canzoni sotto alla pelle delle persone. Porto quello che io sono, senza schermarmi, senza essere avaro neanche un po’ in quanto a sincerità espressiva.
– Quale canzone ha accompagnato la tua adolescenza?
Beh, sono beatlesiano fino al midollo, e per me la canzone perfetta è da sempre “Stawberry fields forever”.
– A quale proposta azzardata risponderesti WHYNOT?
Ce ne sarebbero indubbiamente diverse, anche perché per inclinazione tendo ad arrischiarmi in cose dagli esiti non garantiti. Lo trovo eccitante e credo aiuti a crescere con più capacità di sopportare le delusioni. La paura, diceva qualcuno più importante di me, “mangia l’anima”.